Sarebbe troppo semplicistico affermare che la macchinosa questione della privatizzazione o meno della gestione dell’acqua possa essere subordinata ad un “sì” o a un “no”.

In realtà, la materia ha implicazioni giuridiche, economiche e sociali particolarmente complesse, per cui schierarsi nettamente pro o contro una liberalizzazione non vuol dire nulla, se non esternare un atteggiamento prettamente ideologico. Già nei secoli passati, ad esempio, il tema della proprietà (data in concessione sin dall’antica Roma) e del regime giuridico delle acque ha animato articolati e accesi dibattiti.

L’obbligo di ottenere l’autorizzazione della pubblica autorità prima di utilizzare l’acqua, una sorta di “prima privatizzazione” risale a tempi remoti, addirittura codificato nel diritto romano, nel limite di quella che, a quel tempo, era considerata acqua pubblica. E qui sorge un primo aspetto della questione: la difficoltà, già presente oltre due millenni fa, di determinare criteri unici per individuare l’acqua quale res communes omnium. Ciò conferma la difficoltà ad assegnare regole comuni ad una realtà ricca di implicazioni e connessioni che investono vari aspetti della vita quotidiana. Indicativo un importante convegno sull’acqua che s’è svolto lo scorso febbraio presso l’università di Trento. Pur limitandosi a trattare soltanto l’aspetto giuridico, ha incluso tematiche ampie, di massimo interesse e “stranamente” distanti dal dibattito politico di queste settimane.

Ad esempio, l’acqua come bene giuridico (sin dal diritto romano), come oggetto della giurisdizione, come interesse penalmente tutelato, come fonte di energia; le diverse forme della risorsa e l’incidenza dei differenti luoghi; il “governo” delle acque, tra protezione e gestione; il regime giuridico delle acque nella dottrina di diritto comune e il suo regime pubblicistico. E ancora, la pianificazione amministrativa della risorsa idrica. Insomma, la materia è talmente complessa che ogni atteggiamento radicale rischia di essere sbrigativo, superficiale e soprattutto approssimativo.

Nell’Ottocento, per limitarsi ai tempi più moderni, una delle ricorrenti discussioni era incentrata sulle categorie di acque considerate appartenenti al demanio pubblico. Già immediatamente dopo l’unità d’Italia, l’importante legge numero 2248 del 20 marzo 1865 sulle opere pubbliche intervenne su diversi aspetti riguardanti le acque, dal divieto di “porre impedimento” al libero scolo delle acque nei fossi laterali alla strada o il libero deflusso che si scaricano dalle strade sui terreni più bassi, proibendo anche di scaricare nei fossi delle strade e di condurre in essi acque di qualunque natura, salvo i diritti acquisiti e le regolari concessioni.

L’articolo 59 stabiliva che “i proprietari e gli utenti di canali artificiali esistenti lateralmente od in contatto alle strade sono obbligati ad impedire la espansione delle acque sulle medesime ed ogni guasto al corpo stradale e sue pertinenze”. Gli aspetti legati alla gestione individuale dell’acqua risentono inevitabilmente di una società che da secoli ha intrapreso il cammino di garantire spazi crescenti alla proprietà privata. Così lo storico carattere di “concessioni” sempre più diffuse ed estese nel tempo, può essere di fatto affiancato a quello di vere e proprie privatizzazioni. Con un’esigenza di fare cassa che non conosce tempo.

L’importante legge numero 2644 del 10 agosto 1884, ad esempio, assicurò la prima disciplina organica all’uso delle acque pubbliche (tra le quali già non rientravano tutte le acque presenti sul territorio nazionale). La legge diede facoltà ad utilizzare l’acqua pubblica – anche in modo “perpetuo” tramite apposita legge o “temporaneo” non superiore a trent’anni – “a condizione che paghino il relativo canone coloro che hanno utilizzato le acque nel trentennio 1854-1884, potendone dare dimostrazione certa”.

Insomma, da una parte venne riconosciuto una sorta di “diritto antico”, per cui chi aveva usato acqua pubblica per un certo periodo, ne poteva di fatto disporre chiedendone il semplice riconoscimento (“Domanda di riconoscimento per antico uso”), ma dall’altra ci fu un chiaro obiettivo fiscale: acqua a fronte di tasse. La preoccupazione di tutelare la risorsa in quanto tale (“bene pubblico”) era in realtà sovrastata dalla finalità fiscale, di “fare cassa”: anche l’obbligo di ogni provincia a compilare l’elenco delle acque pubbliche ebbe il chiaro scopo di attribuire pubblicità alla risorsa, potendo allargare il raggio, se utilizzata, dell’imposizione fiscale. Atti che hanno acceso polemiche, controversie e contenziosi secolari con il demanio idrico, ancor oggi attuali.

A pagare lo scotto è stata soprattutto l’agricoltura, falcidiata da nuove e ingiustificate tasse. Lo Stato, già allora, utilizzò un uso “commerciale” di un bene che comunque resta pubblico, per garantire altri servizi ai cittadini attraverso le entrate fiscali. Siamo nel periodo del governo Depretis, impegnato a rimettere a posto i conti dello Stato, ad una riorganizzazione che palesa la prevalente inclinazione tributaria. Quel passaggio “assoggettata al pagamento di un canone” nel testo della legge venne addirittura sottolineato. C’è di più. Pur di allargare la schiera dei beneficiari, oltre al rilascio di concessioni per l’uso antico, venne inclusa la concessione per sanatoria, istituto previsto per regolarizzare una situazione esistente. Il Regio decreto numero 1775 dell’11 dicembre 1933, testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e sugli impianti elettrici, amplia le concessioni di fronte alla crescita dell’energia idroelettrica.

All’articolo 2 conferma le concessioni precedenti (coloro i quali, per tutto il trentennio anteriore alla pubblicazione della legge 10 agosto 1884 n. 2644, quindi dal 1854 al 1884), cui aggiunge “coloro che posseggono un titolo legittimo” e “coloro che ne ottengono regolare concessione, a norma della presente legge”, allargando di fatto le maglie per i richiedenti. La legge numero 36 del 5 gennaio 1994, la cosiddetta “legge Galli”, ha ulteriormente esteso l’uso privato dell’acqua. Ha previsto che “tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata e utilizzata secondo criteri di solidarietà”, non escludendo quindi casi di conduzione privata. Ha inoltre stabilito la gestione integrata della risorsa, aggregando sotto un’unica autorità i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione.

Di fatto le gestione idriche sono transitate in una forma societaria attraverso l’istituzione dell’Ato, Ambito territoriale ottimale, autorità costituita da assemblee di sindaci e operatori addetti all’organizzazione, all’affidamento e al controllo del servizio integrato. E che stabiliscono le tariffe cui le società di gestione devono sottostare. Ciò ha permesso vere e proprie privatizzazioni, come i casi noti di Aprilia o Arezzo: l’assegnazione è avvenuta per affidamento diretto del Comune o del consorzio di Comuni a società statali, municipalizzate, miste o private. Quindi i rischi di privatizzazione, oggi sbandierati come pregiudiziale, in realtà non soltanto esistono da tempo, ma addirittura sono superati dal fatto che esperienze di acqua privata esistono da oltre tre decenni in tutto il mondo, Italia compresa, includendo ormai centinaia di milioni di utenti. Senza per questo aver determinato situazioni di “sopruso”, come certa propaganda intende far presagire.

Le “liberalizzazioni” o le “privatizzazioni”, a seconda del termine con cui si vuole definire l’evoluzione della materia, vanno inoltre incontro ai tempi, rischiando di mettere il settore in una condizione anacronistica, che non tiene conto degli inevitabili processi di globalizzazione, anche economica. Il 19 novembre 2009, grazie a un voto di fiducia a Montecitorio, il cosiddetto “decreto Ronchi” diventa la legge 135 del 2009. L’articolo 15 del nuovo testo, annullando l’articolo 23 bis della legge 133 del 2008 che prevedeva, in via ordinaria, il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali a imprenditori o società mediante il ricorso a gara, muove passi decisi verso la privatizzazione dei servizi idrici e degli altri servizi pubblici. In un’ottica di efficientizzazione. Prevede, ad esempio, l’affidamento della gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica o, in alternativa a società a partecipazione mista pubblica e privata con capitale privato non inferiore al 40%, nonché la cessazione degli affidamenti “in house” a società totalmente pubblica, controllate dai comuni (in essere alla data del 22 agosto 2008) alla data del 31 dicembre 2011 o la cessione del 40% del pacchetto azionario. In sostanza la nuova legge prevede che l’affidamento diretto dei servizi idrici cessi dal 31 dicembre 2011 e sia sostituito da gare a evidenza pubblica.

I contratti in essere resteranno in vigore fino a scadenza, pur in assenza di una gara formale, qualora le amministrazioni cedano almeno il 40% del capitale alle società partecipate. Le società quotate hanno tre anni per adeguarsi alla nuova normativa, a patto che entro il 30 giugno 2013 abbiano almeno il 40% di quota di partecipazione pubblica, percentuale che scende al 30% per il 2015. A sostegno della sua legge, il ministro Ronchi ne ha spiegato le ragioni evidenziando i risultati della gestione fallimentare del sistema idrico integrato a stragrande composizione pubblica che lo ha preceduto. I dati sono indicativi: la dispersione idrica oltrepassa il 30%, cioè 2,61 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, per un costo ai cittadini di 2,5 miliardi di euro l’anno.

Le tariffe, mantenute a livelli decisamente bassi rispetto ai costi per la gestione del servizio, avrebbero azzerato gli investimenti nel settore. Ronchi tiene a precisare che il decreto prevede “liberalizzazioni” e non “privatizzazione”, in quanto il testo parla di “piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche”. Il gestore del servizio, in sostanza, potrà essere pubblico o privato. Sarà una gara a deciderlo, e le reti resteranno di proprietà esclusivamente pubblica. Secondo Ronchi, le liberalizzazioni consentiranno una diminuzione delle tariffe che, pur essendo più basse rispetto agli altri Paesi europei, sono cresciute del 47% tra il 2000 e il 2009. Sensibilizzando i cittadini sul “costo” dell’acqua, si favoriranno anche comportamenti virtuosi volti al risparmio della risorsa idrica. Quindi niente monopolio dell’acqua ai privati, meno dispersione idrica e risparmi in bolletta. L’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, qualificato organismo internazionale di studi economici che conta 34 Paesi membri ed ha sede presso il Château de la Muette, a Parigi, è netto sulla necessità di una vera e propria privatizzazione del servizio idrico nel nostro Paese. Lo scrive nel rapporto “Economic Survey” del 2011, presentato solo qualche giorno fa.

“La privatizzazione è una riforma necessaria”, scrive l’organizzazione internazionale, sottolineando che “aprire alla competizione, e allo stesso tempo permettere la fusione tra società, potrebbe ridurre i costi” e garantire maggiori investimenti visti gli “scarsi” fondi a disposizione del settore pubblico. Parlando del referendum, l’organizzazione parigina evidenzia che la privatizzazione non violerebbe il principio sancito dalle Nazioni unite dell’acqua potabile come diritto umano, auspicando che il processo venga sostenuto dalla creazione di un’Autorità indipendente. Per tornare a crescere a ritmi sostenuti, sempre secondo l’Ocse, l’Italia avrebbe bisogno di riforme strutturali e di completare l’avviato processo di liberalizzazione dei servizi: oltre a ridurre le barriere regolatorie e amministrative alla competizione, migliorare l’efficienza dell’istruzione secondaria e terziaria, aumentare l’efficienza del sistema fiscale, riorientare l’economia verso una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale e migliorare ulteriormente il funzionamento del mercato del lavoro, dovrebbe diminuire le proprietà pubbliche.